Dopo essere stato presentato a maggio all’interno della prestigiosa rassegna della Quinzaine des Réalisateurs al Festival del Cinema di Cannes, insieme ai film di altri due registi italiani, Paolo Virzì e Marco Bellocchio, Fiore arriva al BFI London Film Festival.
Il regista romano Claudio Giovannesi racconta la storia d’amore che nasce in prigione tra Daphne, una giovane condannata per furto e con un rapporto complicato col padre, interpretato da Valerio Mastandrea, e Josh, anche lui detenuto nello stesso carcere minorile.
Da dove arriva l’idea del titolo Fiore?
Cercavamo fin dall’inizio un’immagine semplicissima, che va bene anche per i bambini. Un’immagine simbolica, una metafora di innocenza, femminilità e di qualcosa che si trasforma. Questa parola è il fiore, che è un simbolo anche un po’ infantile. Quando abbiamo fatto la proiezione prima di Cannes, il distributore italiano mi ha detto che se avessi lasciato quel titolo, qualsiasi persona, qualsiasi giornalista, e in qualsiasi incontro col pubblico mi avrebbero chiesto il perché di questo titolo. Quindi anche tu oggi hai realizzato questa profezia! (ride, ndr).
Com’è nata la sceneggiatura?
Io avevo fatto un film, Alì ha gli occhi azzurri, che raccontava di un tema che mi sta molto a cuore, ovvero l’innocenza dei sentimenti, magari in ragazzi che sono colpevoli di fronte alla legge. Questo tema in Alì c’era e anche Fiore nasce dall’dea di raccontare di una ragazza colpevole di fronte alla legge ma che vive dell’innocenza dei propri sentimenti. E poi volevo raccontare una storia d’amore e per raccontarla serve un ostacolo, così come avviene nella drammaturgia e nei romanzi. Maggiore è l’ostacolo, più grande la storia d’amore. Quando abbiamo scoperto che a Roma c’è un carcere minorile misto, dove i maschi e le femmine non si possono incontrare, è venuta l’idea del film.
Avete girato in un vero carcere, anche se era vuoto e inutilizzato. Che ricordo ti porti da questa esperienza?
L’esperienza più forte è stata la preparazione, perché per scrivere la sceneggiatura siamo andati sei mesi in un carcere coi ragazzi. Io non ero mai stato in carcere e neanche gli sceneggiatori. Per raccontare una cosa devi prima conoscerla. Quindi quello è stata un’esperienza molto forte, perché c’è l’innocenza legata all’età e poi il fatto che sono ragazzi detenuti. L’innocenza, l’eros, l’amicizia vissuti in maniera innocente, nella maniera in cui li hai vissuti a sedici anni, però in una situazione punitiva. E poi la condivisione di sentimenti che sono universali, quindi guardi a quei ragazzi non come dei condannati, ma come degli adolescenti.
Fiore è una storia d’amore, più che un racconto sulla vita in prigione. Com’è stato portare dei sentimenti in un luogo avulso da emozioni?
Quella è proprio la scommessa del film, ovvero raccontare non il carcere, ma la nascita di un amore in un luogo in cui l’amore è proibito. Raccontare il carcere come un luogo anche idilliaco, in cui avviene un’educazione sentimentale. E’ un film molto anarchico, in cui i cattivi sono le sbarre e i poliziotti. I film sul carcere sono grigi, raccontano un luogo punitivo. Noi abbiamo cercato di raccontare il carcere come qualcosa di bello, che è un paradosso.
Come hai reclutato gli attori protagonisti e come è stato lavorare con attori alle prime armi?
Alla fine io cerco sempre la verità dei personaggi e cerco di ottenere ciò azzerando la distanza tra attore e personaggio. Per esempio Josh ha fatto veramente tre anni di carcere, durante i quali ha imparato anche a recitare perché ha fatto un corso di regia. Daphne non è mai stata in carcere, però anche lei ha avuto esperienze molto simili a quelle della protagonista. Tanti ragazzi erano ex detenuti. Addirittura ho utilizzato dei poliziotti veri.
La comunicazione dei due ragazzi avviene anche attraverso uno scambio di occhiate tra un braccio e l’altro della prigione. Come hai costruito questo gioco di sguardi?
Nel carcere c’erano le celle della palazzina femminile che si affacciavano sulla palazzina maschile e la comunicazione lì avviene in maniera clandestina, veramente solo con degli sguardi. Era interessante raccontare anche quello, in un periodo in cui l’amore è fatto anche con i social network ed internet, si racconta una comunicazione fatta di sguardi, non verbale, o al massimo epistolare. Ci si trova improvvisamente in una condizione medievale e trovo questo molto romantico.
La fotografia è di Daniele Ciprì. Com’è stato lavorare con un professionista del genere?
E’ il secondo film che faccio con lui. Noi lo chiamiamo ‘maestro’ sul set. I film che ho fatto con Maresco sono stati molto importanti per me. E’ un uomo meraviglioso, un artista incredibile.
Che scelte hai fatto per questo film a livello di forma e linguaggio?
E’ una scelta etica che poi diventa estetica, cioè stare vicino al personaggio. Qualsiasi scena che vedi, la vedi perché la sta vedendo Daphne, la protagonista. Di conseguenza la macchina da presa sta vicino a lei e tutto quello che non è lei è fuori campo. La scelta, che è una scelta morale, è quella di raccontare dal punto di vista di un personaggio, non da quello del regista che racconta i maschi e le femmine. Stai con lei e vedi il mondo attraverso i suoi occhi e questo si traduce in una prossimità della macchina alla protagonista.
Hai diretto due episodi della seconda stagione di Gomorra La Serie. Secondo te com’è la situazione delle serie TV in Italia? Che cosa il cinema apporta al mondo delle serie TV e viceversa?
La situazione delle serie è interessante perché adesso ne stanno per partire di nuove. E’ un linguaggio sicuramente più vicino al cinema che alla televisione, da un punto di vista di messa in scena. La serie spesso è migliore del film, o quantomeno ha la stessa cura che si ha in un film. Non a caso i grandi artisti americani, come Soredbergh o Scorsese, hanno fatto delle serie. Grandi maestri del cinema stanno esplorando questa nuova forma di linguaggio, che ha una narrazione più lunga. Non è solo rinchiusa in tre atti, nei 90 o 120 minuti, ma ha uno sviluppo narrativo. Ma è il futuro, anzi il presente. In Italia stiamo per realizzare delle cose belle, spero.
Cos’è l’Italia per te?
L’Italia per me è il posto dove sono nato e cresciuto, un posto che amo nelle sue contraddizioni e che cerco di raccontare. Raccontare la realtà è anche raccontare l’Italia.
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